Il sito monumentale della Benedicta
Prima di tutto le “fonti della memoria”
Il lavoro sulla memoria, in particolare sulla memoria che riguarda un periodo storico i cui testimoni diretti sono ormai pochissimi, anche includendo tra essi coloro che al tempo degli eventi da ricordare ne potevano essere solo spettatori o protagonisti indiretti, deve gioco forza accettare la limitazione del campo dal quale è ancora possibile raccogliere “nuove fonti”.
Questo è particolarmente vero per ciò che riguarda la vicenda della Resistenza italiana, sulla quale principalmente, se non esclusivamente, si concentra il lavoro tanto dell’associazione “Memoria della Benedicta”, quanto, più in generale, della rete che collega i “Paesaggi della memoria”, nella quale si ritrovano luoghi e musei dedicati a capitoli cruciali della storia del “secolo breve”: il fascismo e l’antifascismo; la persecuzione, la deportazione e lo sterminio degli ebrei d’Europa; la seconda guerra mondiale, l’occupazione tedesca dell’Italia, la Resistenza e la liberazione, sino alla rinascita democratica nel dopoguerra.
Sulla gran parte dei titoli sommari appena citati, oltre alla memorialistica piuttosto ricca, sia di livello nazionale sia di carattere più locale, abbiamo alle spalle una lunga stagione dedicata a un intenso lavoro di raccolta di testimonianze orali, molto disomogenee per quanto riguarda non solo l’approccio metodologico utilizzato dai “raccoglitori”, ma anche per l’inevitabile condizionamento con cui il mutevole contesto politico e culturale nel quale le testimonianze sono state strada facendo raccolte ha giocato sull’articolazione del racconto da parte dei testimoni.
Ora, questo campo specifico di raccolta delle memorie e di produzione della “memoria storica”, per quanto riguarda i temi di cui oggi parliamo, ha pressoché esaurito la sua fertilità. Anche se, e questo va molto rimarcato, sarebbe davvero una colpa grave non fare tutto quanto è ancora possibile per dare la parola e chiamare a testimoniare chi non lo ha fatto sinora, per le più diverse ragioni. Anche i pochi testimoni rimasti, sono un potenziale di memoria prezioso, che non dovremmo accettare di perdere senza valorizzarlo.
Poi, l’organizzazione delle memorie
Con l’eccezione della memorialistica arrivata a pubblicazione, e neppure di tutta stante il gran numero di memorie edite e diffuse solo sulla scala locale e/o regionale, l’enorme mole di testimonianze scritte, orali o audiovisive deriva dal paziente lavoro, spesso volontario o semi-volontario, svolto dalle istituzioni culturali locali. Tra le quali spiccano in particolare gli Istituti storici della Resistenza, variamente denominati e, ormai, pressoché tutti aperti alla ricerca più generale sui temi della storia contemporanea, ma ancora oggi decisivi per tutti coloro che nell’approccio alla conoscenza della lotta di liberazione non intendono fermarsi al livello delle macro-definizioni restituite dai paradigmi della “grande storia”.
Paradigmi certo imprescindibili per comprendere come la vicenda della Resistenza italiana si collochi nel contesto internazionale del tempo e in relazione agli snodi che la storia politica, sociale ed economica dell’Italia si trova ad affrontare sul crinale di quegli anni, ma che da soli non consentono di comprendere le radici profonde della “scelta partigiana”.
L’intreccio di motivazioni che orienta la scelta partigiana da parte di migliaia di giovani all’indomani dell’8 settembre ha certamente un architrave fondamentale: il rifiuto della guerra. Di proseguire la guerra, per i molti giovani reduci dai fronti, che rigettano i bandi di richiamo alle armi. Di iniziarla, proprio nel momento in cui essa appare perduta, per i molti giovani chiamati ad arruolarsi dalle autorità della Repubblica Sociale fascista o dagli occupanti tedeschi.
Su questo macro-fenomeno di disobbedienza civile, si innesta un caleidoscopio di ragioni individuali e/o collettive, di spinte familiari e/o amicali, di motivazioni politiche o, non così di rado, semplicemente esistenziali, che si combinano tra loro in modo differente, di luogo in luogo, legandosi tra loro in ragione delle peculiarità che ciascun ambito territoriale esprime, in ragione delle proprie caratteristiche sociali ed economiche o in ragione della storia lunga di culture e mentalità.
La Resistenza, nella sua dimensione di massa (sempre precisando che si tratta di una massa che esprime una “minoranza”, pur consistente, del popolo italiano) è prima di tutto questo: l’irruzione sulla scena della storia di una generazione che decide di prendere tra le mani il proprio destino e, così facendo e forse senza neppure esserne, almeno all’inizio, pienamente consapevole, prende tra le mani il destino dell’Italia. E’ vero che, senza il lavoro di cucitura politica e militare svolto dai CLN e dal CVL, quell’irruzione non avrebbe saputo trasformarsi in un esercito di liberazione e in un progetto di rinascita nazionale. Ma è vero anche che senza di essa l’antifascismo politico non sarebbe diventato Resistenza.
Le testimonianze sono, a migliaia, il documento cardine di quel fenomeno, che per primo Claudio Pavone, nel suo “Una guerra civile”, ha posto alle origini della lotta di liberazione italiana. E’ tempo, ora che i testimoni ancora viventi, protagonisti di quella scelta, sono sempre meno, di immaginare una sistemazione organizzata in modo rigoroso e su scala nazionale di quel patrimonio di memoria conservato in decine di archivi locali. Senza, naturalmente, depotenziare il valore di radicamento territoriale specifico, che tanto le testimonianze quanto le spinte e i progetti di ricerca, spesso di scala locale, sottesi alla loro raccolta, conservano.
“Arte e manutenzione della memoria” di Ivano Antonazzo
Ma collocando quel patrimonio collettivo di memoria, ora che le tecnologie lo rendono possibile, in un grande contenitore digitale, in grado di evitarne la frammentazione e di metterle potenzialmente in dialogo tra loro, in base alle chiavi di lettura e agli approcci tematici e metodologici selezionati dalla ricerca. Una sorta di grande “caveau nazionale delle memorie”, dal quale attingere le voci dei protagonisti e in virtù del quale ridare senso e spessore a ciò che fu, nel concreto, la multiforme esperienza della lotta partigiana, per quanti la combatterono senza lasciare traccia sulle pagine della “grande storia”.
Immagino questo sia già uno degli obiettivi inscritti nel progetto riguardante i contenuti da immettere nel realizzando “Museo nazionale della Resistenza”. Qualora non lo fosse, sarebbe bene porre rimedio, affinché in quello che dovrà diventare la più significativa istituzione storica e culturale dedicata a quel cruciale capitolo della storia contemporanea possa ospitare e restituire, in particolare ai più giovani, la dimensione corale e polifonica di quella che fu, tra le altre cose, un’imponente rivolta generazionale.
Purtroppo, per quanto possa essere intenso il lavoro di valorizzazione della/e memoria/e, anche in forza delle tecnologie che oggi consentono molteplici salti di qualità, resterà per sempre il vuoto lasciato da coloro che non hanno voluto o potuto testimoniare, per loro scelta o per comprensibili (soprattutto in alcuni passaggi della storia recente) prudenze. E ancora di più il vuoto di coloro che troppo a lungo sono stati considerati soggetti meno meritevoli di testimoniare. Valgono gli esempi degli internati militari o delle donne, troppo a lungo considerate soggetti gregari della lotta armata, nonostante siano state moltissime tra loro quelle che hanno svolto nella guerriglia ruoli analoghi a quelli dei partigiani di sesso maschile.
I luoghi della/e memoria/e e il dovere della “restituzione”
Pochi capitoli della nostra storia nazionale recano, al pari della resistenza, l’impronta dei luoghi. Nel suo “formarsi dal basso”, l’esercito partigiano, soprattutto nella sua fase aurorale, tende ad assumere il ruolo di tutore delle comunità locali nel cui contesto opera.
Siano la distruzione dei registri di leva, siano la protezione dei raccolti, molte delle prime azioni partigiane sono dirette alla tutela delle comunità di insediamento delle bande. Il che è vero, in particolare, per le formazioni della montagna e della collina, dove il rapporto tra le bande armate e le popolazioni locali è condizione stessa per l’insorgenza, la crescita e la sopravvivenza dei primi nuclei di ribelli.
Per un verso, dal rapporto con i luoghi e con le comunità che li abitano deriva il rigore con cui, progressivamente, vengono definiti i codici di comportamento e disciplina secondo i quali i comandi organizzano e amministrano la “giustizia partigiana”: è difficile capire l’estremo rigore con il quale venivano punite colpe che oggi tutti riterremmo banali, come il furto di qualche genere alimentare, al di fuori di quella ricerca, se non di consenso e collaborazione, almeno della tolleranza necessaria a “coprire” da parte della popolazione la presenza e l’operatività dei distaccamenti.
Per altro verso, il contesto locale riversava in molti casi nel farsi e nell’articolarsi del movimento partigiano, le connotazioni sociali, politiche e culturali proprie della zona. Ivi comprese le tensioni che tali connotazioni portavano con sé, talvolta affondando le loro radici nei tempi più distesi della storia precedente. Le drammatiche vicende della Resistenza nell’area del confine orientale italiano, sono tra gli esempi più aspri che la storia di quel periodo ci racconta.
Ma non meno complesse sono le dinamiche che si manifestarono più vicino a noi: nelle tensioni che connotarono alcuni capitoli della Resistenza nel nostro Appennino o sulle nostre colline, tra le formazioni e i protagonisti più legati all’esperienza delle lotte di fabbrica e al ruolo del Partito Comunista e i raggruppamenti più strettamente radicati nelle realtà della campagna e della montagna, connotati da un’aderenza stretta a una mentalità di matrice contadina, refrattaria a recepire le istanze rivoluzionarie di una parte del movimento partigiano.
Letta in questa chiave, la relazione tra i luoghi, intesi come condensato di storie di lungo e medio periodo, e la lotta partigiana, di per sé esempio di una vicenda di breve periodo, è indispensabile: da un lato per comprendere alcune delle ragioni, certo non tutte, sottese alle specifiche connotazioni e/o tensioni interne che il movimento resistenziale conobbe nei diversi territori in cui operò; dall’altro per tornare alla rilevanza dei “luoghi della Resistenza italiana” e avviare verso quei luoghi, in molti casi divenuti nei lunghi decenni della Repubblica luoghi marginali (“aree interne” si dice nella terminologia attuale) una giusta politica di “restituzione” di senso.
Restituire senso e prospettive di vita nel presente ai luoghi e alle comunità che accolsero o ospitarono loro malgrado la Resistenza, in taluni casi pagandone un prezzo tanto doveroso quanto doloroso e quasi sempre venendo successivamente dimenticati negli anni della rinascita repubblicana e democratica dell’Italia, è un compito che deve entrare più efficacemente nell’agenda di chi opera per conservare e valorizzare la memoria.
Anche attraverso un lavoro attento a rendere compatibile l’esercizio del ricordo e degli elementi di sacralità laica che esso contiene con le dinamiche di un turismo culturale di alto contenuto civile, pronto a cogliere i molti casi in cui le tracce della vicenda partigiana si combinano con il pregio assoluto dei paesaggi e del contesto ambientale.
La rete della memoria e le istituzioni
Sul tema del “Che fare?” per meglio conservare la memoria, non può essere tralasciata una riflessione sugli assetti e sugli aspetti istituzionali. In primo luogo occorrono risorse, molte e, almeno in parte più consistenti di quanto accaduto sino ad oggi, pubbliche. Ben vengano, certamente, le risorse di “privati istituzionali” quali le fondazioni bancarie, ma la memoria della Resistenza deve essere principalmente affidata alla cura delle istituzioni pubbliche.
Su questo versante non può certo essere trascurato il ruolo molto importante che nell’arco dei decenni hanno svolto e stanno svolgendo, seppure in modo quantitativamente disomogeneo, Regioni ed Enti Locali, mediante i finanziamenti assegnati alla rete degli Istituti storici della Resistenza e, in modo significativo, anche ai luoghi di memoria, presenti in un buon numero anche nella realtà piemontese.
Il territorio delle Aree protette dell’ Appennino ligure-piemontese dove si trova Capanne di Marcarolo e la zona monumentale della Benedicta
Tuttavia, se vogliamo che l’antifascismo e la Resistenza consolidino il loro valore di passaggio storico discriminante e costituente, è allo Stato nazionale che compete, più che a ogni altro livello istituzionale, muovere nuovi e più decisivi passi: non per proporre un modello di centralizzazione della memoria storica (laddove, al contrario, serve invece che anche la struttura del realizzando Museo nazionale sia pensata quanto più possibile quale nodo principale di una vera e propria “rete delle memorie”) ma per assumere sulla scala nazionale il senso del passaggio storico materiale che ha fondato la democrazia italiana.
Per questa e per molte altre ragioni, una legge dello Stato, che riconosca il valore giuridico della rete nazionale degli Istituti storici della Resistenza collegati all’Istituto nazionale “Ferruccio Parri” e dei luoghi di memoria e musei associati nella rete dei “Paesaggi della memoria”, e dei patrimoni bibliografici e archivistici da essi conservati, appare oggi quanto mai rilevante.
Una legge che ripristini e attualizzi il senso della Legge 16 gennaio 1967, n. 3 (Riconoscimento giuridico dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia), inopinatamente abrogata nel 2011 dal Ministro per la semplificazione Roberto Calderoni.
Una legge che consolidi sul fronte didattico il lavoro che le istituzioni di ricerca svolgono nei confronti della scuola italiana, sottraendolo alla disomogeneità e alla volatilità delle condizioni locali e all’arbitrio, ad esempio nell’assegnazione degli insegnanti distaccati dal MIUR agli Istituti storici, degli Uffici scolastici regionali.
Una legge che stanzi le risorse necessarie a completare i processi di digitalizzazione, indicizzazione e messa a disposizione delle memorie, oggi affrontati con enormi difficoltà da enti di ricerca piccoli e spesso attanagliati dalla difficoltà di trovare le stesse risorse minime per sopravvivere, tenere aperte al pubblico le sedi, esistere.
Questo, solo apparentemente prosaico obiettivo, congiuntamente a quello del “Museo nazionale della Resistenza”, dovrebbe lasciare le stanze degli addetti ai lavori e diventare esso stesso oggetto di dibattito pubblico. Proprio in questo delicato frangente storico, nel quale la memoria della nostra lotta di liberazione appare nuovamente sotto attacco, da parte di alcune delle più alte cariche dello Stato, giocare in campo aperto la sfida della memoria può essere la chiave necessaria ad evitare che la partita ci sfugga silenziosamente dalle mani.
Daniele Borioli, Presidente dell’ Associazione Memoria della Benedicta